Speciale Sole 2017: Greco di Bianco Passito 2012
Al Nord c’è il greco novarese (sinonimo di erbaluce), al Centro il grechetto, al Sud svariati greco (non solo quello di Tufo, ma anche più giù, in Basilicata, Calabria, Puglia…): sono tante le uve italiane che nel loro nome richiamano la Grecia; per lo più si tratta, però, di vitigni fra loro diversi ed è quindi facile che si crei qualche confusione.
Per concentrarci sulla sola Calabria, autentico e ricchissimo serbatoio di varietà rare ed antiche (la cui identificazione è, peraltro, resa particolarmente ostica dagli innumerevoli casi di sinonimie e omonimie), il rischio di smarrirsi è davvero alto. Solo per il greco nero si contano almeno quattro casi di omonimia (di Cirò, di Sibari, di Verbicaro, di Scilla, senza contare che nel Lametino lo stesso nome è usato per il magliocco dolce), mentre, per quanto riguarda le uve a bacca bianca, la distinzione è questione di preposizione, poiché in terra calabra troviamo il greco bianco ed il greco “di” Bianco, vitigni che le moderne tecniche di analisi genetica hanno, invero, definitivamente identificato come due distinte varietà. Il primo, il greco bianco, è diffuso prevalentemente lungo la costa ionica, nel Cirotano, nella Locride e nel Bivongio, ed è la base del Cirò Bianco, uno dei vini bianchi calabresi più conosciuti. Il secondo, il Greco di Bianco, è invece presente in un limitato areale nei territori intorno a Bianco e alla storica cittadina di Gerace; le indagini molecolari hanno consentito di appurarne l’identità con la malvasia delle Lipari (coltivata nel Messinese e sulle Eolie), con la malvasia di Sardegna (diffusa nell’area di Cagliari e Bosa) e, al di fuori dell’Italia, con le malvasie di Dubrovačka (Dalmazia), di Sitges e di Banyalbufar (Spagna) e con altre presenti a Madeira e nelle Canarie, confermando la sua ampia diffusione nel Mediterraneo centro-occidentale.
Tornando alla Calabria, l’aspetto forse più intrigante è che dal greco di Bianco (vitigno, quindi con l’iniziale minuscola) si ottiene il Greco di Bianco (vino, dunque con l’iniziale maiuscola), un passito prodotto in quantitativi davvero di nicchia nei soli comuni di Bianco e Casignana, in provincia di Reggio Calabria, la cui millenaria storia in qualche modo ci sprona a riannodare i fili con i miti e le mitologie che stanno alle radici – culturali e materiali – della nostra civiltà, della quale il vino rappresenta un significativo e fondamentale simbolo.
Gli studiosi di mitologia si sono a lungo interrogati sulla reale natura del mito. In una sua opera del 1973 (Mito, ora disponibile in un’edizione Aragno), il compianto Furio Jesi osservava come già nel XIX secolo “alcuni dei maggiori esponenti della ‘scienza del mito’ avevano avvertito […] l’effettiva inabilità della metodologia scientifica filologica a cogliere il vero oggetto della parola ‘mitologia’.” Alle interpretazioni che leggevano il materiale mitologico come “un complesso di allegorie”, “frutto casuale della libera fantasia o delle invenzioni intenzionali di formule simboliche”, si opponevano, infatti, le tesi di studiosi quali Buttmann e Müller, convinti del “senso autonomo ed oggettivo della forma d’espressione mitologica, […] l’unica disponibile agli uomini al momento della formulazione dei racconti mitologici”. In altre parole, la mitologia rappresenterebbe “la forma di espressione peculiare poiché spontanea, non intenzionalmente elaborata, di una fase antichissima della cultura umana: nella mitologia gli uomini d’allora avrebbero espresso come riusciva loro spontaneo ciò che vedevano e sapevano. […] Nell’ambito del materiale mitologico l’immagine non poteva essere pensata separatamente da ciò che essa rappresentava.” L’essenza della mitologia starebbe, insomma, “nel ‘pensare mitologico’ che congiunge indissolubilmente contenuto e forma, materiale e arte di modellarlo”.
Sono intuizioni cariche di suggestione e, guardando in particolare al vino e al suo antico simbolismo, sembra davvero difficile non essere concordi. Basti pensare ai miti e riti dionisiaci, alla libera espressione della vita e dell’uomo nella loro passionale e sfrenata istintività e sensualità che in essi si manifestava proprio attraverso il vino e l’ebbrezza, quasi che la forza viscerale del legame con la terra e la natura, insieme di estasi e angoscia, non potesse che scaturire con “spontaneità” – in una sintesi, appunto, di contenuto e forma – dai “modi” stessi della viticoltura e dell’arte della vinificazione: la crescita difficile della vite negli aridi climi ellenici, la sua fatica nel generare grappoli comunque ubertosi di vitale e succosa polpa; il ricco concentrarsi degli acini che si asciugano sotto l’abbacinante sole del Mediterraneo; l’arcana trasformazione del dolce succo d’uva in un liquido d’inebriante delizia.